Venezia, 1563. Veronese dipinge questa scena gigantesca – quasi dieci metri di larghezza – per il refettorio del monastero di San Giorgio Maggiore.
La storia è sacra, ma l’atmosfera è decisamente mondana: un banchetto affollato, vestiti sontuosi, piatti ricolmi, servi indaffarati.
E nel bel mezzo, Gesù che trasforma l’acqua in vino.
Una tela che più che un dipinto sembra un’istantanea scattata con una macchina fotografica ad altissima definizione.
Tre secoli prima di Daguerre, che si prende il brevetto nel 1839.
Ma qui c’è già tutto. Mancava la pellicola, il sensore.
Ogni dettaglio è talmente preciso che se fosse un file digitale, potremmo zoomare all’infinito senza perdere qualità.
Peccato che a fine Settecento arrivi Napoleone: prende e porta via.
Il dipinto finisce al Louvre e lì rimane, perché certe cose, una volta esportate, non tornano indietro.
Ma la tecnologia aiuta a rimediare. Nel 2007, grazie a un progetto tra il Louvre e la Fondazione Cini, viene realizzata una copia digitale perfetta del dipinto.
Scanner, stampe su tela, ritocchi manuali: un clone in pratica indistinguibile dall’originale.
Lo riportano a Venezia e lo rimettono al suo posto. Sembra una storia a lieto fine, ma c’è un dettaglio: l’originale è sempre a Parigi. Dove tra l’altro La Gioconda lo annienta.
Resta però un paradosso interessante. Nel Cinquecento, Veronese dipingeva come se avesse in mano una fotocamera.
Nel Duemila, usiamo la fotografia per rifare il dipinto.
È un corto circuito pazzesco: un dipinto “fotografico” di 500 anni fa, clonato da macchine che Veronese non avrebbe capito.
Ma avrebbe annuito, (forse).