Un uomo in camice bianco. Una manovella.
Un ingranditore che sembra un dinosauro.
Siamo tra gli anni 60 e 70, il colore si separa così: a mano.
Da una diapositiva nascono quattro pellicole: ciano, magenta, giallo, nero.
Un lavoro da matti. Costoso, lentissimo.
Un selezionatore bravo ne fa dieci al giorno, bruciando metri di pellicola.
Un’arte fatta di chimica, luce, pazienza. Laboratori bui, mani sporche, odore di sviluppatore.
Arrivano gli anni ‘80. Gli scanner.
Macchine ingombranti, prezzi da capogiro.
Le colleghi a un computer – altro lusso – e il gioco cambia. Più veloce, più pulito.
Negli anni ‘90, il Mac fa il botto.
E poi via scanner per tutti e software miracolosi.
Oggi sui cataloghi scrivono “color separation”, che sembra una cosa moderna, ma nasce da lì: separazione dei colori, l’essenza della fotolito.